Da Frankenstein al Transumanesimo: la ricerca di un’alternativa al limite umano

Premessa

"Da Frankenstein al Transumanesimo: la ricerca costante di un'alternativa alla limitatezza umana" è il titolo della mia tesi di laurea...

Il motivo che mi ha spinta a fare ricerca su un argomento profondo e talvolta ostico come la morte, è dovuto all’interessamento ad alcune tematiche – trattate dallo stesso mito – e alcune scoperte che da sempre cercano di smentirla. Frankenstein è uno dei miti più conosciuti e attuali di tutti i tempi per la capacità di inscenare la tracotanza che da sempre caratterizza gli scienziati – il cosiddetto mad scientist nasce proprio insieme al mito – e di riflettere la crisi di uno dei pilastri su cui si è retto il nostro immaginario per generazioni: la religione. Ogni singola creazione – dal galvanismo alla nascita della defibrillazione del pace-maker – che ha cercato di scongiurare il nostro più grande limite, è stata inizialmente accolta dall’opinione pubblica come blasfema, perché anima l’uomo non più per volere di Dio, ma per quello di un altro uomo che si eleva a egli. Frankenstein ha riscosso forti critiche negative all’inizio, perché rifletteva alcuni di questi timori contemporanei tra le parole di una trama forte e cruenta, ma è stato forse il primo racconto che ha cercato di dare ragione a quello sforzo tanto difficile che è l’accettazione. L’accettazione per la scomparsa di un caro.
Qui vi lascerò l’introduzione alla mia tesi di laurea.
Spero vi piaccia!

Introduzione

Alla domanda “qual è il mito più saldo e invischiato di verità, finzione e futurismo di tutti i tempi?”, non si può rispondere senza fare riferimento a Frankenstein. Le suggestioni scientifiche che rimettono in discussione il modo di pensare l’essere umano, i drammi dell’individuo contemporaneo all’interno della società, la ricerca instancabile di una soluzione al conto alla rovescia dato dalla biologia dell’organismo… questi sono solo alcuni dei punti più importanti che la Shelley ha affrontato, a soli diciannove anni, tessendo le fila di un discorso suscettibile di essere applicato ogni qualvolta nuove scoperte o invenzioni sollevano perplessità di tipo antropologico-filosofico.
Terminata nel 1817 e pubblicata in forma anonima nel marzo del 1818 dalla Handing, Mavor & Jones, l’opera di Mary Shelley ha avuto ai suoi inizi un riscontro negativo da parte della critica, che l’ha giudicata un «tessuto di orribili e disgustose assurdità». In realtà però, questa non rappresenta altro che una piccola tappa del lungo cammino che il mito ha attraversato, di epoca in epoca e di continente in continente, perché ha offerto importanti spunti di riflessione in diversi campi disciplinari. Dal peso del pregiudizio e del solipsismo in ambito sociale; passando per il complesso edipico – rielaborato in una chiave più gotic – e la dolorosa influenza delle convenzioni sociali sull’animo in quello psicologico; fino ad arrivare a quello scientifico che dal galvanismo sino al transumanesimo inaugurerà una lunga stagione di scoperte ed esperimenti volti a superare i nostri confini biologicamente tracciati.
Il titolo, emblematico per la nostra riflessione, offre una doppia pista al lettore a partire dal nome dello scienziato: Frankenstein. La presenza di un nome tedesco costituisce una promessa di brividi inenarrabili, un richiamo al tenebroso e all’occulto. Nell’Ottocento, infatti, la diffusione di alcune tradizioni sovrannaturali in Germania ha avuto un impatto tale da far sì che, per questo e per il secolo successivo, l’intera nazione venisse considerata la miniera d’oro del gotic e del fantasy.
La seconda pista invece, delineata dall’iconico sottotitolo, “or the modern Prometeus”, ci rimanda a una concezione moderna del mondo classico, libertaria, nella quale risalta il titano che ruba il fuoco agli dèi per consegnarlo agli uomini che, secondo alcune versioni, avrebbe plasmato lo stesso essere umano. Ribelle, ingegnoso e in perenne lotta con i propri limiti. Prometeo incarna però anche il dio latino che dalla lavorazione dell’argilla avrebbe creato l’uomo, ed è “moderno” nella misura in cui si riferisce al nome di uno scienziato che, con i suoi esperimenti, ha rivoluzionato il modo di concepire l’elettricità: Benjamin Franklin – il cui nome non a caso è assonante a Frankenstein che, in qualche modo, ne costituisce un elogio.
La genialità di Mary Shelley è insita nella sua perspicacia, che le ha consentito di carpire alcuni dei fermenti rivoluzionari che hanno stravolto la società del suo tempo, tra cui la Rivoluzione francese, la manipolazione dell’elettricità, il galvanismo. Eventi che, come si evince dal sottotitolo e dalla narrativa che lo accompagna, hanno contribuito al “potenziamento” naturale dell’uomo e alla secolarizzazione del pensiero occidentale. Man mano che la scienza ha progredito, l’uomo si è reso sempre più autonomo dalle verità rivelate e dalle illusioni in esse riposte, per acquisire la consapevolezza di essere l’unico artefice del proprio destino.
Fino a che punto questa consapevolezza si è potuta considerare tale, senza trasformarsi in modo significativo, al punto di diventare una pericolosa concezione di “onnipotenza” con l’effetto perverso di rendere invisibile ogni confine ai suoi occhi? È un po’ ciò che accade oggi all’interno del transumanesimo e delle nuove discipline del XXI secolo, che giungono perfino all’idea di manipolare, penetrare e alterare il cervello umano. Cosa ci assicura che un “miglioramento” cerebrale condurrà la nostra specie a un gradino più in alto della scala evolutiva, e non smonterà semplicemente una nuova illusione, traducendosi perfino in regresso?
Il Prometeo moderno assolve allora anche alla funzione metaforica di velo trasparente permettendo al lettore, attraverso le sue continue rielaborazioni nel cinema, nella televisione e nel teatro – oggetto del primo capitolo – di scrutare la hybris che caratterizza lo scienziato moderno, capace di sovvertire ogni genere di regola pur di raggiungere dei progressi.

Qualche decennio prima che la Shelley concepisse la sua “creatura”, qualcun altro ha avuto idee altrettanto sconvolgenti, che però esulano dall’ambito prettamente narrativo. Basta fare un piccolo salto geografico e spostarsi in Italia, di preciso a Bologna, dove un fisico fuori dal comune, verso la fine del 1700, ha iniziato a studiare la cosiddetta “elettricità animale”: Luigi Galvani. Con i suoi esperimenti egli ha influenzato il pensiero scientifico dell’intero secolo successivo, plasmando una nuova dottrina scientifica, meglio nota come galvanismo – tema cardine del secondo capitolo – che in Frankenstein trova la sua piena realizzazione, il suo alter ego, con la rinascita di una creatura attraverso le mani di un uomo.
L’oggetto degli studi di Galvani erano le sezioni del corpo di piccoli animali, per lo più rane, perché egli voleva dimostrare che le contrazioni delle zampe si verificano quando, in apparenza, non c’è nessun’altra elettricità a poterle causare – se non quella speciale, estremamente debole, già esistente al loro interno. Per lo studioso esisteva una stretta connessione tra elettricità e vita, poiché egli pensava che l’elettricità fosse prodotta dal cervello, distribuita e conservata nei muscoli attraverso i nervi. Se essa rimaneva nei muscoli delle rane quando erano morte stecchite, allora sarebbe rimasta anche nei muscoli degli uomini che si trovassero nello stesso stato. «Victor Frankenstein, partendo da queste ipotesi e cosciente che, se per la zampetta di una rana era necessaria una piccola quantità di elettricità, per “riavviare” un intero essere umano ne sarebbe servita una quantità enorme, capisce dunque che ha bisogno di tutta la forza del fulmine».
Si pensa, tuttavia, che siano stati i più recenti esperimenti del nipote di Galvani, Giovanni Aldini – il quale può essere considerato a pieno titolo l’erede del galvanismo – che ha portato avanti le ricerche di suo zio, spingendosi ben oltre. Infatti, i suoi studi sono stati condotti sulle parti di cadaveri umani. L’avvento del “Prometeo moderno” ha costituito poi il trampolino di lancio per un dibattito attorno a un tema molto interessante, nonché cercare di resuscitare i morti con l’uso dell’elettricità. Un’ipotesi resa possibile dalla concezione diffusa, a partire dalle speculazioni di Isaac Newton, in merito all’affinità tra «il “fluido elettrico” dei fisici e il “fluido nervoso” dei fisiologi» – l’elettricità sarà sempre più considerata il principio alla base di ogni forma di vita. Le numerose discussioni attorno al tema hanno preparato ulteriormente il terreno per la comparsa di alcune delle pratiche mediche, tuttora attuali, più importanti nella nostra storia di “posticipazione” della scadenza prefissata. Tra queste si annoverano la Rianimazione, la Ventilazione artificiale, la macchina cuore-polmone. Benché l’elettricità favorisca una concezione dell’uomo alla stregua di una macchina, suscettibile di manipolazioni analoghe come la sostituzione di componenti “obsolete” con altre più efficienti – e ciò sarà rafforzato dall’introduzione della Cibernetica negli anni Quaranta del XX secolo – essa condurrà comunque ad altre invenzioni, più recenti, che consentiranno di allungare di gran lunga il nostro percorso biologico: il Pacemaker e la Defibrillazione. Due pratiche che si sposano a perfezione con i tentativi del dottor Frankenstein e condividono con quest’ultimo l’ausilio di scosse elettriche per ravvivare il muscolo cardiaco.
Tuttavia, sappiamo che il tentativo di scongiurare la morte non è certo una tendenza contemporanea e che le sue radici, in un modo o nell’altro, sono insite nella natura dell’essere umano. Chi non sperimenterebbe la possibilità di allungare la durata della propria esistenza o di levigare, oggi più di ieri, quegli aspetti deprecabili, anche da un punto di vista cognitivo poiché, ormai, le capacità delle macchine rischiano – ed è già accaduto in parte – di superare le nostre? Chi non si metterebbe in gioco per migliorare, come cercò di fare il dottor Frankenstein, seppure con scarso risultato, le condizioni della natura umana?
È sulla seconda ipotesi esposta che si concentrano il terzo capitolo e gli obiettivi principali del transumanesimo, il cui termine è stato coniato dal biologo e filosofo inglese Julian Huxley nel suo saggio omonimo (1957), riferendosi al miglioramento della condizione umana attraverso il cambiamento sociale e culturale. «Il saggio e il nome sono stati poi adottati come fondamento del movimento transumanista, che ne enfatizza la tecnologia materiale».
L’etica di fondo, da come possiamo constatare, era ben diversa dal contesto odierno in cui scenari da film fantascientifici hanno attraversato la membrana che separa la realtà dalla finzione, rendendola sempre più labile, e si sono insinuati nella nostra routine. Le previsioni (e invenzioni) di alcuni dei più importanti scrittori o registi non sono più tanto lontane. Per fare un esempio molto semplice, il “videofono” attraverso cui i personaggi dickiani comunicavano tra di loro, allora possibile e degno erede del telefono, si è oggi incarnato a tutti gli effetti all’interno degli smartphone. Oppure il famoso robot del romanzo di Isaac Asimov (Io, robot, 1950) capace di provare sentimenti e di comunicare con l’essere umano, può essere oggi equiparato al deep learning – che rispecchia molto il nostro modo di apprendere – o ai futuri “badanti in silicio” che prima o poi diventeranno una realtà nelle case di riposo.

La domanda principale è fino a quando l’uomo potrà sfidare i propri limiti, senza generare delle ripercussioni importanti su se stesso, anche negative? Fino a che punto egli potrà assecondare disinvolto il proprio ego, assistendo e contribuendo al progresso tecnologico, senza che questi diventi l’emblema della condizione di precarietà alla quale egli è condannato?

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Alexandra Romano

“Frankenstein or the modern Prometheus” di Mary Shelley (1818) – RECENSIONE

Alla domanda “qual è il mito più saldo e invischiato di verità, finzione e futurismo di tutti i tempi?”, non si può rispondere senza fare riferimento a Frankenstein. Le suggestioni scientifiche che rimettono in discussione il modo di pensare l’essere umano, i drammi dell’individuo contemporaneo all’interno della società… questi sono solo alcuni dei temi che la Shelley ha affrontato, appena diciannovenne, tessendo le fila di un discorso senza tempo.

Illustrazione dall’edizione di Frankenstein del 1831

Pubblicata in forma anonima nel marzo del 1818 dalla Handing, Mavor & Jones, la scrittrice ha raccontato che l’ispirazione per lopera è giunta in seguito a un terribile incubo, in cui affiorava lo scienziato e la sua orripilante creazione. Agli inizi Frankenstein ha un riscontro negativo, perché riflette alcuni di dei timori contemporanei tra le parole di una trama forte e cruenta – e per questo suscettibile di essere applicata ogni qualvolta nuove scoperte o invenzioni sollevano perplessità antropologico-filosofiche. In realtà però, questa è solo una piccola tappa del lungo cammino che il mito ha attraversato, perché ha offerto diversi spunti di riflessione in più campi disciplinari.

Un mito atemporale, capace di attraversare le epoche da una generazione all’altra

Frankenstein è il racconto di un uomo che tenta, avvalendosi della conoscenza scientifica, di procreare la vita. E lo fa attraverso le basi della chimica, della filosofia naturale, ma dimenticando che questo ruolo spetta non a lui di natura. L’egregio scienziato, Victor Frankenstein, durante il suo viaggio in Inghilterra s’imbatte in un sfida ai limiti del possibile. Il risultato, naturalmente, non riesce come spera. Nessuno può alterare l’opera della Divina Provvidenza, generando un risultato che non è altri che un abominio in carne e ossa. L’utopia incarnata da un essere senza nome e senza passato, riflesso di una società immersa in un industria di massa che conforma l’individuo all’insieme.
Lo scienziato decide così di screditare la propria creatura, costituendo un emblematica testimonianza della limitatezza umana. La Creatura è così costretta a divenire malvagia per ottenere un po’ d’amore, data la forte noncuranza del suo Creatore di fronte ai suoi drammi. Il pregiudizio cui il suo orripilante volto la condanna, la sofferenza del diverso escluso perché disomogeneo a tutto il resto, la ribellione nei confronti di un percorso prefissato e di un’autorità che non fa le veci della sua creazione.

Un racconto in cui orrore e drammaticità si intrecciano, in cui il male dapprima trionfa sul bene, per poi non lasciare altro che dolore. Il mostro creato da Frankenstein è una creatura alla ricerca dell’amore… cosa che alla fine riesce a ottenere ma solo dopo tanti crimini commessi. Il male diventa l’unico modo per raggiungere il bene.

Il Transumanesimo: il nuovo Frankenstein contemporaneo…

Sul fronte scientifico, Frankenstein simboleggia il tentativo di posticipare – o perfino smentire – la morte, perché per la prima volta getta luce sulla tracotanza che caratterizza gli scienziati. Il mito si reincarna oggi all’interno del transumanesimo, che si richiama al miglioramento e all’estensione delle condizioni di vita attraverso la tecnologia. Non è più il caso della Defibrillazione o del Pacemaker che cercavano di allungare la nostra durata, ma di un’alterazione del nostro stesso patrimonio biologico. Oggi, start up come Neuralink di Elon Musk e Kernel di Bryan Johnson, mirano a inserire elettrodi wireless nel cervello per migliorarne le prestazioni o ripristinarne funzioni perse in seguito a traumi o malattie. Pare che l’idea di una fine del proprio percorso vitale, non sia più accettata o perfino tollerata dalla psiche moderna. Tuttavia, non conosciamo ancora le conseguenze che una sperimentazione di questo tipo comporterà per il nostro essere.

Le continue rielaborazioni culturali del mito da un’epoca all’altra

Del mito sono presenti molteplici rielaborazioni culturali che vanno dal primissimo adattamento teatrale del 1818 alla performance Radio Frankenstein del 2017. Nel cinema sono oltre settanta i film dedicati al romanzo, la maggior parte dei quali è basata sull’adattamento teatrale del 1927 Frankenstein: an Adventure in the Macabre di Peggy Webling, responsabile di aver alimentato i più conosciuti “cine-malintesi”. Ad esempio, Frankenstein viene scambiato per la Creatura; oppure siamo “abituati” a sentire il mostro grugnire perché nel film del 1931 la Creatura comunica attraverso i versi.
Tra i vari capolavori cinematografici spicca dunque la mini-serie creata da James Whale con Frankenstein (1931), Bride of Frankenstein (1935) e Son of Frankenstein (1939), pregna di un misto di significati che è possibile cogliere in una scena, in una parola, in un’azione. Poi c’è quella di Terence Fisher che inizia con The Course of Frankenstein (1957) composta da ben sei film.

La Creatura di Frankenstein nel film di James Whale del 1931.

Sul fronte letterario, il mito ha ispirato un filone che affonda le radici nella creazione in laboratorio, nelle manipolazioni genetiche e nel senso di onnipotenza dello scienziato moderno. L’isola del dottor Moureau di Wells, Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Stevenson, Il resuscitatore di Beccati sono solo alcuni degli infiniti esempi.


Nell’immaginario contemporaneo, in cui la serialità si è sostituita alla televisione, il mito ancora una volta è stato capace di evolversi e incarnarsi in prodotti audiovisivi, come il famoso caso di The Frankenstein Chronicles o Penny Dreadful. In quest’ultima, la Creatura che Frankenstein crea per poter finalmente soddisfare il desiderio di amore del mostro, diverrà un icona del femminismo. Delle guerre condotte dalle donne contro gli uomini avidi, contro chi si approfitta di loro o chi le usa semplicemente per i propri luridi fini.

Conclusioni

All’epoca, il galvanismo ha messo in discussione il concetto stesso di morte, gettando luce sulla speranza di poter riportare indietro i defunti. Non ci si è preoccupati troppo di violare uno dei pilastri fondamentali del nostro immaginario, che è l’illusione di una vita dopo la morte. Non ci si è neppure premurati delle implicazioni biologiche e psicologiche per un corpo che, secondo la Natura e il Divino, ha esaurito il suo tempo. Quale Creatura è mai nata all’interno di un laboratorio dall’assembramento eterogeneo di componenti anatomiche delle più diverse origini?
Una domanda che solleva un dibattito capace di toccare campi come la Genetica – e più che mai l’Ingegneria genetica – le Biotecnologie, la Trapiantologia, la Robotica e l’Intelligenza Artificiale. Il mito di Frankenstein ha inglobato ogni possibile sfumatura di tali assunti, invitando costantemente la coscienza collettiva a ragionare su questi ultimi.

Vi è dunque l’esistenza di un legame indissolubile tra scienza e immaginario, caratterizzate da un rapporto di co-costruzione, di dipendenza reciproca. Il mito della Shelley è l’esempio lampante di tale relazione. Concepito in un periodo di forte turbolenza scientifica, il mad doctor – che, lo ricordiamo, nasce insieme al mito – diventa una chiave d’interpretazione per riflettere sui progressi storici e recenti, ma anche per immaginare quelli futuri.

Alexandra Romano

La battaglia delle tre corone (Kendare Blake) – RECENSIONE

La battaglia delle tre corone è il primo capitolo di una saga, ideata da Kendare Blake, che ha scalato le classifiche del New York Times. Composto da un misto intrecci, misteri e sorprese, il romanzo si struttura secondo tre particolari punti di vista (in terza persona), che sono quelli delle tre regine novelle, Katharine, Arsinoe e Mirabella, delle quali solo una sopravvivrà: colei che salirà al trono. Separate alla nascita e spedite dritte in tre località differenti, ognuna di loro ha un potere, una specie di “forza”, che la contraddistingue dalle altre. La prima è un avvelenatrice, abituata sin dalla tenera età a ingerire grandi quantità di bacche di belladonna e altri frutti velenosi per diventare la degna erede della stirpe degli Arron. La seconda, invece, è capace di far sbocciare ogni tipo di fiore (o almeno dovrebbe essere così), anche se pare che il suo dono tardi a manifestarsi al meglio, e quindi farà affidamento spesso alla magia comune. La terza è un’elementale, in grado di generare violente tempeste, uragani e di far divampare le fiamme fin sopra il cielo.
Ognuna è costretta a conoscere i suoi pretendenti, potenziali re-consorti dell’isola, ma ogni incontro ha delle ripercussioni tutt’altro che scontate.

La battaglia delle tre corone: Katharine

Katharine è la regina di Greaversdrake, il palazzo reale degli Arron, gli avvelenatori più rinomati del regno. Sin dalle prime righe de La battaglia delle tre corone ho intravisto in questa regina una delle possibili chiavi di interpretazione che rinvia al dramma dell’anoressia, delle convenzioni sociali. Katharine è giovane, sempre più esile, e ogni volta che ingurgita enormi quantità di veleno, il suo corpo diventa via via più pallido, emaciato dagli sforzi. Eppure, tutta quella sofferenza a cui è costretta per tenere alto il nome della stirpe la fa apparire tanto fine ed elegante, nonostante il suo animo si tramuterà poi in quello più spietato pur di conquistare il trono. L’improvvisa morte del suo re-consorte, durante la loro prima notte di nozze, farà comprendere al lettore che il suo corpo è diventato più velenoso di un fungo di campagna.

La battaglia delle tre corone: Arsinoe

Arsinoe invece, come già detto, è la regina della natura, della meglio nota località di “Wolf Spring”, nonostante sin da giovane non abbia mai manifestato appieno il suo potere. È un caso o forse c’è qualche lato nascosto della sua personalità, del suo corpo che ancora deve scoprire? Di rado è riuscita a far sbocciare qualche rosa, raggiungendo mai i livelli di abilità della sua “sorella” d’infanzia, Jules, al suo fianco sempre e comunque. È grazie alla sua alchimia con la natura e gli animali che Arsinoe potrà dimostrare, durante la notte del banchetto, di avere una qualche influenza sul suo famiglio (in realtà in simbiosi con Jules). In perenne attesa per il ritorno del suo Joseph, Jules possiede un dono molto particolare e potente, la cui intensità è stata tenuta a bada da uno specifico marchio.

La battaglia delle tre corone: Mirabella

Mirabella infine, la favorita tra le sue sorelle – almeno all’inizio – è la regina forse in più stretta simbiosi con la natura. Dalle sue mani trapela l’elettricità necessaria a scatenare un fulmine nel cielo, o la giusta energia in grado di originare una violenta tempesta. La più forte eppure la più sensibile tra tutte, dopo Arsinoe, quasi disposta a sacrificare se stessa pur di evitare la morte della sorella Arsinoe. Ma Mirabella è anche la più affascinante delle regine, e la sua bellezza sarà l’elemento che metterà in crisi i rapporti delle sue sorelle con i loro futuri re-consorte. Innamorata di un ragazzo che non può avere, Mirabella accetta di sposarsi con Bill, ormai convinto della morte di Arsinoe ad opera di Katharine, ma non sa ancora cosa le riserverà il futuro.

Tanti intrighi, intrecciati alla perfezione all’interno di una trama che scorre fluida e misteriosa, e un numero indefinibile di particolari azzeccati, incastrati tanto bene come i pezzi di un puzzle che fanno da cornice, ma finiscono poi per avere ognuno un suo ruolo di primo piano, a una storia affascinante e originale.

Alexandra Romano

Le Creature del buio di Stephen King (1987) — RECENSIONE

Partiamo dicendo che mai e poi mai avrei pensato di leggere un libro tanto lungo e a tratti complesso, se non lo si legge giorno dopo giorno. Forse, detto da un’amante della scrittura, può suonare un po’ anomalo che libri che superano le 300/400 pagine le (gli) trasmettono una certa “oppressione”. Eppure è così. O almeno, lo era. Perché dopo anni ho sfatato un mito, una delle piccole paure che mi porto dentro da qualche tempo.
Ho amato prima la scrittura e poi la lettura, benché il mio primo libro sia nato dall’ispirazione ad una saga, oltre che da un’esperienza di vita dolorosa. Ricordo, ancora, quando mi consigliavano dei romanzi, tra i banchi di scuola, e provavo quell’angoscia, quell’ansia all’idea di non riuscire a concluderli. Poi, un giorno, a quindici anni, sono entrata in una libreria e sono rimasta colpita dalla trama della saga di Becca Fitzpatrik sugli angeli caduti e i Nephilim. Da lì, ho iniziato ad appassionarmi del mondo fantasy, del tempo magico che popola le atmosfere dark e della capacità di creare aneddoti unici da una mente all’altra. Se ricordo bene, quando ero al terzo volume della saga, è nata l’idea per il mio primo romanzo, così come l’amore per la lettura.

RECENSIONE: Le Creature del buio di Stephen King (1987)

Ad oggi, che cerco di leggere il più possibile, malgrado impegni di studio e di scrittura, posso dire che alla lettura devo tanto. E anche a Le creature del buio, di Stephen King, che è stato un altro “passo intellettuale” importante, se così vogliamo chiamarlo. In questo romanzo ho colto sia l’ironia dello scrittore, che mitiga i momenti più tetri, e anche la difficoltà della nostra esistenza. Talvolta siamo costretti a compiere delle scelte cruciali, che possono condizionare anche gli affetti.
Haven, una cittadina poco conosciuta del Maine, va improvvisamente incontro a un destino che non ha scelto, ma che per qualche motivo inspiegabile deve affrontare. Durante la consueta passeggiata con il suo cane, Patrik, Bobbi Anderson si imbatte in un oggetto misterioso, a malapena visibile. Ad ogni riflesso del sole quella piccola lastra d’acciaio brilla come l’argento luccicante. All’apparenza sembra un semplice oggetto, misterioso nella sua latenza, ma capace di catturare la mente di Bobbi, che inizia a passare intere giornate a scavare. Ore e ore a tentare di ipotizzare cosa diavolo nasconda la terra di tanto occulto da non poterlo mostrare. Intanto, un amico di vecchia data, Jim Gardner, da sempre innamorato di lei, arriva a casa sua e scorge un cambiamento nella sua salute, di gran lunga peggiorata dall’ultima volta.

Entrambi si ritroveranno imbrigliati in una faccenda che supera i limiti delle capacità umane quando, dopo giorni di scavi, scoprono cos’è l’oggetto occulto: un’astronave. Un luogo popolato da esseri viventi che provengono da un altro pianeta, i Tommyknoker, e che nel tempo provocherà radicali mutamenti psico-fisici negli abitanti di Haven. Infatti, la cittadina comincia ad essere popolata da acquirenti di batterie, di cavi elettrici, e di magliette con una strana scritta per sostituire i vestiti umettati di sangue. Le comunicazioni con l’esterno vengono drasticamente ridotte, fino a scomparire, mentre in prossimità dell’astronave ogni marchingegno elettronico sembra incepparsi. Nei dintorni dell’astronave qualunque uomo perde sangue, complice l’aria irrespirabile, che per ogni sfortunato avventore in quella foresta implica l’uso di una maschera d’ossigeno. La mutazione sarà tanto grande da modificare il regolare modo di comunicare tra gli abitanti, che iniziano a parlarsi con la mente, ad essere sempre più telepatici.

Il mio parere…

Nell’opera di King ho colto delle sfumature dickiane, riguardo il modo di comunicare, man mano che la trama si evolve e diventa sempre più intricata. Ho sempre amato queste particolarità dell’essere umano, la telepatia… l’empatia! Se ci siamo evoluti è stato proprio grazie a quest’ultima particolarità. Mi si strugge il cuore quando Bobbi soffre, quando cerca di proteggere Gardner che, suo modo, non vuole sapere ragione e resta. Resta fino a quando la situazione peggiora al punto da divenire tragica e implicare l’uccisione della persona che si ama. Bobbi subisce un’evoluzione enorme, dall’inizio fino alla fine del libro, e devo dire, un po’ mi ha fatto pena la sua situazione. Altro tratto peculiare dell’opera è l’aver creato un ambiente dalle parvenze reali, cosa in cui King è un maestro, e secondo me leggere tante pagine ne è valsa la pena. Molti romanzi di fantascienza necessitano di un adeguato spazio per dar concretezza alle scene, ai personaggi, all’ambientazione in primis.

Infine, ho trascorso qualche mese a leggere questo racconto, e mi ci sono affezionata al punto che quando l’ho terminato ho provato una certa nostalgia. Insomma, è stato il mio compagno di viaggio, di vacanze… Consiglio vivamente Le Creature dei Buio a chi, come me, ama l’horror, i differenti modi di comunicare e le lunghe imprese per scoprire un mistero.

Alexandra Romano