Da Frankenstein al Transumanesimo: la ricerca di un’alternativa al limite umano

Premessa

"Da Frankenstein al Transumanesimo: la ricerca costante di un'alternativa alla limitatezza umana" è il titolo della mia tesi di laurea...

Il motivo che mi ha spinta a fare ricerca su un argomento profondo e talvolta ostico come la morte, è dovuto all’interessamento ad alcune tematiche – trattate dallo stesso mito – e alcune scoperte che da sempre cercano di smentirla. Frankenstein è uno dei miti più conosciuti e attuali di tutti i tempi per la capacità di inscenare la tracotanza che da sempre caratterizza gli scienziati – il cosiddetto mad scientist nasce proprio insieme al mito – e di riflettere la crisi di uno dei pilastri su cui si è retto il nostro immaginario per generazioni: la religione. Ogni singola creazione – dal galvanismo alla nascita della defibrillazione del pace-maker – che ha cercato di scongiurare il nostro più grande limite, è stata inizialmente accolta dall’opinione pubblica come blasfema, perché anima l’uomo non più per volere di Dio, ma per quello di un altro uomo che si eleva a egli. Frankenstein ha riscosso forti critiche negative all’inizio, perché rifletteva alcuni di questi timori contemporanei tra le parole di una trama forte e cruenta, ma è stato forse il primo racconto che ha cercato di dare ragione a quello sforzo tanto difficile che è l’accettazione. L’accettazione per la scomparsa di un caro.
Qui vi lascerò l’introduzione alla mia tesi di laurea.
Spero vi piaccia!

Introduzione

Alla domanda “qual è il mito più saldo e invischiato di verità, finzione e futurismo di tutti i tempi?”, non si può rispondere senza fare riferimento a Frankenstein. Le suggestioni scientifiche che rimettono in discussione il modo di pensare l’essere umano, i drammi dell’individuo contemporaneo all’interno della società, la ricerca instancabile di una soluzione al conto alla rovescia dato dalla biologia dell’organismo… questi sono solo alcuni dei punti più importanti che la Shelley ha affrontato, a soli diciannove anni, tessendo le fila di un discorso suscettibile di essere applicato ogni qualvolta nuove scoperte o invenzioni sollevano perplessità di tipo antropologico-filosofico.
Terminata nel 1817 e pubblicata in forma anonima nel marzo del 1818 dalla Handing, Mavor & Jones, l’opera di Mary Shelley ha avuto ai suoi inizi un riscontro negativo da parte della critica, che l’ha giudicata un «tessuto di orribili e disgustose assurdità». In realtà però, questa non rappresenta altro che una piccola tappa del lungo cammino che il mito ha attraversato, di epoca in epoca e di continente in continente, perché ha offerto importanti spunti di riflessione in diversi campi disciplinari. Dal peso del pregiudizio e del solipsismo in ambito sociale; passando per il complesso edipico – rielaborato in una chiave più gotic – e la dolorosa influenza delle convenzioni sociali sull’animo in quello psicologico; fino ad arrivare a quello scientifico che dal galvanismo sino al transumanesimo inaugurerà una lunga stagione di scoperte ed esperimenti volti a superare i nostri confini biologicamente tracciati.
Il titolo, emblematico per la nostra riflessione, offre una doppia pista al lettore a partire dal nome dello scienziato: Frankenstein. La presenza di un nome tedesco costituisce una promessa di brividi inenarrabili, un richiamo al tenebroso e all’occulto. Nell’Ottocento, infatti, la diffusione di alcune tradizioni sovrannaturali in Germania ha avuto un impatto tale da far sì che, per questo e per il secolo successivo, l’intera nazione venisse considerata la miniera d’oro del gotic e del fantasy.
La seconda pista invece, delineata dall’iconico sottotitolo, “or the modern Prometeus”, ci rimanda a una concezione moderna del mondo classico, libertaria, nella quale risalta il titano che ruba il fuoco agli dèi per consegnarlo agli uomini che, secondo alcune versioni, avrebbe plasmato lo stesso essere umano. Ribelle, ingegnoso e in perenne lotta con i propri limiti. Prometeo incarna però anche il dio latino che dalla lavorazione dell’argilla avrebbe creato l’uomo, ed è “moderno” nella misura in cui si riferisce al nome di uno scienziato che, con i suoi esperimenti, ha rivoluzionato il modo di concepire l’elettricità: Benjamin Franklin – il cui nome non a caso è assonante a Frankenstein che, in qualche modo, ne costituisce un elogio.
La genialità di Mary Shelley è insita nella sua perspicacia, che le ha consentito di carpire alcuni dei fermenti rivoluzionari che hanno stravolto la società del suo tempo, tra cui la Rivoluzione francese, la manipolazione dell’elettricità, il galvanismo. Eventi che, come si evince dal sottotitolo e dalla narrativa che lo accompagna, hanno contribuito al “potenziamento” naturale dell’uomo e alla secolarizzazione del pensiero occidentale. Man mano che la scienza ha progredito, l’uomo si è reso sempre più autonomo dalle verità rivelate e dalle illusioni in esse riposte, per acquisire la consapevolezza di essere l’unico artefice del proprio destino.
Fino a che punto questa consapevolezza si è potuta considerare tale, senza trasformarsi in modo significativo, al punto di diventare una pericolosa concezione di “onnipotenza” con l’effetto perverso di rendere invisibile ogni confine ai suoi occhi? È un po’ ciò che accade oggi all’interno del transumanesimo e delle nuove discipline del XXI secolo, che giungono perfino all’idea di manipolare, penetrare e alterare il cervello umano. Cosa ci assicura che un “miglioramento” cerebrale condurrà la nostra specie a un gradino più in alto della scala evolutiva, e non smonterà semplicemente una nuova illusione, traducendosi perfino in regresso?
Il Prometeo moderno assolve allora anche alla funzione metaforica di velo trasparente permettendo al lettore, attraverso le sue continue rielaborazioni nel cinema, nella televisione e nel teatro – oggetto del primo capitolo – di scrutare la hybris che caratterizza lo scienziato moderno, capace di sovvertire ogni genere di regola pur di raggiungere dei progressi.

Qualche decennio prima che la Shelley concepisse la sua “creatura”, qualcun altro ha avuto idee altrettanto sconvolgenti, che però esulano dall’ambito prettamente narrativo. Basta fare un piccolo salto geografico e spostarsi in Italia, di preciso a Bologna, dove un fisico fuori dal comune, verso la fine del 1700, ha iniziato a studiare la cosiddetta “elettricità animale”: Luigi Galvani. Con i suoi esperimenti egli ha influenzato il pensiero scientifico dell’intero secolo successivo, plasmando una nuova dottrina scientifica, meglio nota come galvanismo – tema cardine del secondo capitolo – che in Frankenstein trova la sua piena realizzazione, il suo alter ego, con la rinascita di una creatura attraverso le mani di un uomo.
L’oggetto degli studi di Galvani erano le sezioni del corpo di piccoli animali, per lo più rane, perché egli voleva dimostrare che le contrazioni delle zampe si verificano quando, in apparenza, non c’è nessun’altra elettricità a poterle causare – se non quella speciale, estremamente debole, già esistente al loro interno. Per lo studioso esisteva una stretta connessione tra elettricità e vita, poiché egli pensava che l’elettricità fosse prodotta dal cervello, distribuita e conservata nei muscoli attraverso i nervi. Se essa rimaneva nei muscoli delle rane quando erano morte stecchite, allora sarebbe rimasta anche nei muscoli degli uomini che si trovassero nello stesso stato. «Victor Frankenstein, partendo da queste ipotesi e cosciente che, se per la zampetta di una rana era necessaria una piccola quantità di elettricità, per “riavviare” un intero essere umano ne sarebbe servita una quantità enorme, capisce dunque che ha bisogno di tutta la forza del fulmine».
Si pensa, tuttavia, che siano stati i più recenti esperimenti del nipote di Galvani, Giovanni Aldini – il quale può essere considerato a pieno titolo l’erede del galvanismo – che ha portato avanti le ricerche di suo zio, spingendosi ben oltre. Infatti, i suoi studi sono stati condotti sulle parti di cadaveri umani. L’avvento del “Prometeo moderno” ha costituito poi il trampolino di lancio per un dibattito attorno a un tema molto interessante, nonché cercare di resuscitare i morti con l’uso dell’elettricità. Un’ipotesi resa possibile dalla concezione diffusa, a partire dalle speculazioni di Isaac Newton, in merito all’affinità tra «il “fluido elettrico” dei fisici e il “fluido nervoso” dei fisiologi» – l’elettricità sarà sempre più considerata il principio alla base di ogni forma di vita. Le numerose discussioni attorno al tema hanno preparato ulteriormente il terreno per la comparsa di alcune delle pratiche mediche, tuttora attuali, più importanti nella nostra storia di “posticipazione” della scadenza prefissata. Tra queste si annoverano la Rianimazione, la Ventilazione artificiale, la macchina cuore-polmone. Benché l’elettricità favorisca una concezione dell’uomo alla stregua di una macchina, suscettibile di manipolazioni analoghe come la sostituzione di componenti “obsolete” con altre più efficienti – e ciò sarà rafforzato dall’introduzione della Cibernetica negli anni Quaranta del XX secolo – essa condurrà comunque ad altre invenzioni, più recenti, che consentiranno di allungare di gran lunga il nostro percorso biologico: il Pacemaker e la Defibrillazione. Due pratiche che si sposano a perfezione con i tentativi del dottor Frankenstein e condividono con quest’ultimo l’ausilio di scosse elettriche per ravvivare il muscolo cardiaco.
Tuttavia, sappiamo che il tentativo di scongiurare la morte non è certo una tendenza contemporanea e che le sue radici, in un modo o nell’altro, sono insite nella natura dell’essere umano. Chi non sperimenterebbe la possibilità di allungare la durata della propria esistenza o di levigare, oggi più di ieri, quegli aspetti deprecabili, anche da un punto di vista cognitivo poiché, ormai, le capacità delle macchine rischiano – ed è già accaduto in parte – di superare le nostre? Chi non si metterebbe in gioco per migliorare, come cercò di fare il dottor Frankenstein, seppure con scarso risultato, le condizioni della natura umana?
È sulla seconda ipotesi esposta che si concentrano il terzo capitolo e gli obiettivi principali del transumanesimo, il cui termine è stato coniato dal biologo e filosofo inglese Julian Huxley nel suo saggio omonimo (1957), riferendosi al miglioramento della condizione umana attraverso il cambiamento sociale e culturale. «Il saggio e il nome sono stati poi adottati come fondamento del movimento transumanista, che ne enfatizza la tecnologia materiale».
L’etica di fondo, da come possiamo constatare, era ben diversa dal contesto odierno in cui scenari da film fantascientifici hanno attraversato la membrana che separa la realtà dalla finzione, rendendola sempre più labile, e si sono insinuati nella nostra routine. Le previsioni (e invenzioni) di alcuni dei più importanti scrittori o registi non sono più tanto lontane. Per fare un esempio molto semplice, il “videofono” attraverso cui i personaggi dickiani comunicavano tra di loro, allora possibile e degno erede del telefono, si è oggi incarnato a tutti gli effetti all’interno degli smartphone. Oppure il famoso robot del romanzo di Isaac Asimov (Io, robot, 1950) capace di provare sentimenti e di comunicare con l’essere umano, può essere oggi equiparato al deep learning – che rispecchia molto il nostro modo di apprendere – o ai futuri “badanti in silicio” che prima o poi diventeranno una realtà nelle case di riposo.

La domanda principale è fino a quando l’uomo potrà sfidare i propri limiti, senza generare delle ripercussioni importanti su se stesso, anche negative? Fino a che punto egli potrà assecondare disinvolto il proprio ego, assistendo e contribuendo al progresso tecnologico, senza che questi diventi l’emblema della condizione di precarietà alla quale egli è condannato?

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Alexandra Romano

“Frankenstein or the modern Prometheus” di Mary Shelley (1818) – RECENSIONE

Alla domanda “qual è il mito più saldo e invischiato di verità, finzione e futurismo di tutti i tempi?”, non si può rispondere senza fare riferimento a Frankenstein. Le suggestioni scientifiche che rimettono in discussione il modo di pensare l’essere umano, i drammi dell’individuo contemporaneo all’interno della società… questi sono solo alcuni dei temi che la Shelley ha affrontato, appena diciannovenne, tessendo le fila di un discorso senza tempo.

Illustrazione dall’edizione di Frankenstein del 1831

Pubblicata in forma anonima nel marzo del 1818 dalla Handing, Mavor & Jones, la scrittrice ha raccontato che l’ispirazione per lopera è giunta in seguito a un terribile incubo, in cui affiorava lo scienziato e la sua orripilante creazione. Agli inizi Frankenstein ha un riscontro negativo, perché riflette alcuni di dei timori contemporanei tra le parole di una trama forte e cruenta – e per questo suscettibile di essere applicata ogni qualvolta nuove scoperte o invenzioni sollevano perplessità antropologico-filosofiche. In realtà però, questa è solo una piccola tappa del lungo cammino che il mito ha attraversato, perché ha offerto diversi spunti di riflessione in più campi disciplinari.

Un mito atemporale, capace di attraversare le epoche da una generazione all’altra

Frankenstein è il racconto di un uomo che tenta, avvalendosi della conoscenza scientifica, di procreare la vita. E lo fa attraverso le basi della chimica, della filosofia naturale, ma dimenticando che questo ruolo spetta non a lui di natura. L’egregio scienziato, Victor Frankenstein, durante il suo viaggio in Inghilterra s’imbatte in un sfida ai limiti del possibile. Il risultato, naturalmente, non riesce come spera. Nessuno può alterare l’opera della Divina Provvidenza, generando un risultato che non è altri che un abominio in carne e ossa. L’utopia incarnata da un essere senza nome e senza passato, riflesso di una società immersa in un industria di massa che conforma l’individuo all’insieme.
Lo scienziato decide così di screditare la propria creatura, costituendo un emblematica testimonianza della limitatezza umana. La Creatura è così costretta a divenire malvagia per ottenere un po’ d’amore, data la forte noncuranza del suo Creatore di fronte ai suoi drammi. Il pregiudizio cui il suo orripilante volto la condanna, la sofferenza del diverso escluso perché disomogeneo a tutto il resto, la ribellione nei confronti di un percorso prefissato e di un’autorità che non fa le veci della sua creazione.

Un racconto in cui orrore e drammaticità si intrecciano, in cui il male dapprima trionfa sul bene, per poi non lasciare altro che dolore. Il mostro creato da Frankenstein è una creatura alla ricerca dell’amore… cosa che alla fine riesce a ottenere ma solo dopo tanti crimini commessi. Il male diventa l’unico modo per raggiungere il bene.

Il Transumanesimo: il nuovo Frankenstein contemporaneo…

Sul fronte scientifico, Frankenstein simboleggia il tentativo di posticipare – o perfino smentire – la morte, perché per la prima volta getta luce sulla tracotanza che caratterizza gli scienziati. Il mito si reincarna oggi all’interno del transumanesimo, che si richiama al miglioramento e all’estensione delle condizioni di vita attraverso la tecnologia. Non è più il caso della Defibrillazione o del Pacemaker che cercavano di allungare la nostra durata, ma di un’alterazione del nostro stesso patrimonio biologico. Oggi, start up come Neuralink di Elon Musk e Kernel di Bryan Johnson, mirano a inserire elettrodi wireless nel cervello per migliorarne le prestazioni o ripristinarne funzioni perse in seguito a traumi o malattie. Pare che l’idea di una fine del proprio percorso vitale, non sia più accettata o perfino tollerata dalla psiche moderna. Tuttavia, non conosciamo ancora le conseguenze che una sperimentazione di questo tipo comporterà per il nostro essere.

Le continue rielaborazioni culturali del mito da un’epoca all’altra

Del mito sono presenti molteplici rielaborazioni culturali che vanno dal primissimo adattamento teatrale del 1818 alla performance Radio Frankenstein del 2017. Nel cinema sono oltre settanta i film dedicati al romanzo, la maggior parte dei quali è basata sull’adattamento teatrale del 1927 Frankenstein: an Adventure in the Macabre di Peggy Webling, responsabile di aver alimentato i più conosciuti “cine-malintesi”. Ad esempio, Frankenstein viene scambiato per la Creatura; oppure siamo “abituati” a sentire il mostro grugnire perché nel film del 1931 la Creatura comunica attraverso i versi.
Tra i vari capolavori cinematografici spicca dunque la mini-serie creata da James Whale con Frankenstein (1931), Bride of Frankenstein (1935) e Son of Frankenstein (1939), pregna di un misto di significati che è possibile cogliere in una scena, in una parola, in un’azione. Poi c’è quella di Terence Fisher che inizia con The Course of Frankenstein (1957) composta da ben sei film.

La Creatura di Frankenstein nel film di James Whale del 1931.

Sul fronte letterario, il mito ha ispirato un filone che affonda le radici nella creazione in laboratorio, nelle manipolazioni genetiche e nel senso di onnipotenza dello scienziato moderno. L’isola del dottor Moureau di Wells, Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Stevenson, Il resuscitatore di Beccati sono solo alcuni degli infiniti esempi.


Nell’immaginario contemporaneo, in cui la serialità si è sostituita alla televisione, il mito ancora una volta è stato capace di evolversi e incarnarsi in prodotti audiovisivi, come il famoso caso di The Frankenstein Chronicles o Penny Dreadful. In quest’ultima, la Creatura che Frankenstein crea per poter finalmente soddisfare il desiderio di amore del mostro, diverrà un icona del femminismo. Delle guerre condotte dalle donne contro gli uomini avidi, contro chi si approfitta di loro o chi le usa semplicemente per i propri luridi fini.

Conclusioni

All’epoca, il galvanismo ha messo in discussione il concetto stesso di morte, gettando luce sulla speranza di poter riportare indietro i defunti. Non ci si è preoccupati troppo di violare uno dei pilastri fondamentali del nostro immaginario, che è l’illusione di una vita dopo la morte. Non ci si è neppure premurati delle implicazioni biologiche e psicologiche per un corpo che, secondo la Natura e il Divino, ha esaurito il suo tempo. Quale Creatura è mai nata all’interno di un laboratorio dall’assembramento eterogeneo di componenti anatomiche delle più diverse origini?
Una domanda che solleva un dibattito capace di toccare campi come la Genetica – e più che mai l’Ingegneria genetica – le Biotecnologie, la Trapiantologia, la Robotica e l’Intelligenza Artificiale. Il mito di Frankenstein ha inglobato ogni possibile sfumatura di tali assunti, invitando costantemente la coscienza collettiva a ragionare su questi ultimi.

Vi è dunque l’esistenza di un legame indissolubile tra scienza e immaginario, caratterizzate da un rapporto di co-costruzione, di dipendenza reciproca. Il mito della Shelley è l’esempio lampante di tale relazione. Concepito in un periodo di forte turbolenza scientifica, il mad doctor – che, lo ricordiamo, nasce insieme al mito – diventa una chiave d’interpretazione per riflettere sui progressi storici e recenti, ma anche per immaginare quelli futuri.

Alexandra Romano

La battaglia delle tre corone (Kendare Blake) – RECENSIONE

La battaglia delle tre corone è il primo capitolo di una saga, ideata da Kendare Blake, che ha scalato le classifiche del New York Times. Composto da un misto intrecci, misteri e sorprese, il romanzo si struttura secondo tre particolari punti di vista (in terza persona), che sono quelli delle tre regine novelle, Katharine, Arsinoe e Mirabella, delle quali solo una sopravvivrà: colei che salirà al trono. Separate alla nascita e spedite dritte in tre località differenti, ognuna di loro ha un potere, una specie di “forza”, che la contraddistingue dalle altre. La prima è un avvelenatrice, abituata sin dalla tenera età a ingerire grandi quantità di bacche di belladonna e altri frutti velenosi per diventare la degna erede della stirpe degli Arron. La seconda, invece, è capace di far sbocciare ogni tipo di fiore (o almeno dovrebbe essere così), anche se pare che il suo dono tardi a manifestarsi al meglio, e quindi farà affidamento spesso alla magia comune. La terza è un’elementale, in grado di generare violente tempeste, uragani e di far divampare le fiamme fin sopra il cielo.
Ognuna è costretta a conoscere i suoi pretendenti, potenziali re-consorti dell’isola, ma ogni incontro ha delle ripercussioni tutt’altro che scontate.

La battaglia delle tre corone: Katharine

Katharine è la regina di Greaversdrake, il palazzo reale degli Arron, gli avvelenatori più rinomati del regno. Sin dalle prime righe de La battaglia delle tre corone ho intravisto in questa regina una delle possibili chiavi di interpretazione che rinvia al dramma dell’anoressia, delle convenzioni sociali. Katharine è giovane, sempre più esile, e ogni volta che ingurgita enormi quantità di veleno, il suo corpo diventa via via più pallido, emaciato dagli sforzi. Eppure, tutta quella sofferenza a cui è costretta per tenere alto il nome della stirpe la fa apparire tanto fine ed elegante, nonostante il suo animo si tramuterà poi in quello più spietato pur di conquistare il trono. L’improvvisa morte del suo re-consorte, durante la loro prima notte di nozze, farà comprendere al lettore che il suo corpo è diventato più velenoso di un fungo di campagna.

La battaglia delle tre corone: Arsinoe

Arsinoe invece, come già detto, è la regina della natura, della meglio nota località di “Wolf Spring”, nonostante sin da giovane non abbia mai manifestato appieno il suo potere. È un caso o forse c’è qualche lato nascosto della sua personalità, del suo corpo che ancora deve scoprire? Di rado è riuscita a far sbocciare qualche rosa, raggiungendo mai i livelli di abilità della sua “sorella” d’infanzia, Jules, al suo fianco sempre e comunque. È grazie alla sua alchimia con la natura e gli animali che Arsinoe potrà dimostrare, durante la notte del banchetto, di avere una qualche influenza sul suo famiglio (in realtà in simbiosi con Jules). In perenne attesa per il ritorno del suo Joseph, Jules possiede un dono molto particolare e potente, la cui intensità è stata tenuta a bada da uno specifico marchio.

La battaglia delle tre corone: Mirabella

Mirabella infine, la favorita tra le sue sorelle – almeno all’inizio – è la regina forse in più stretta simbiosi con la natura. Dalle sue mani trapela l’elettricità necessaria a scatenare un fulmine nel cielo, o la giusta energia in grado di originare una violenta tempesta. La più forte eppure la più sensibile tra tutte, dopo Arsinoe, quasi disposta a sacrificare se stessa pur di evitare la morte della sorella Arsinoe. Ma Mirabella è anche la più affascinante delle regine, e la sua bellezza sarà l’elemento che metterà in crisi i rapporti delle sue sorelle con i loro futuri re-consorte. Innamorata di un ragazzo che non può avere, Mirabella accetta di sposarsi con Bill, ormai convinto della morte di Arsinoe ad opera di Katharine, ma non sa ancora cosa le riserverà il futuro.

Tanti intrighi, intrecciati alla perfezione all’interno di una trama che scorre fluida e misteriosa, e un numero indefinibile di particolari azzeccati, incastrati tanto bene come i pezzi di un puzzle che fanno da cornice, ma finiscono poi per avere ognuno un suo ruolo di primo piano, a una storia affascinante e originale.

Alexandra Romano

ZAFFIRO, il richiamo dei Ventusmarin (Alexandra Romano) – 3° estratto

Anche dietro a un’apparente e semplice routine può celarsi il più profondo dei misteri. Talvolta, gli stereotipi sono dei veli che sanno camuffarci a perfezione per stare al mondo, ma non bisogna tralasciare neanche il più minuscolo dei dettagli. Uno sguardo, una mera sensazione, e tutto può cambiare, perché la persona più limpida, in realtà, può essere la più ambigua. È un po’ quello che succede a Ginevra che, sin da bambina, si pone sempre le stesse domande, senza riuscire a rispondersi, ogni volta che trasmigra verso un luogo atipico. Un continente dove è forte l’eco di voci provenienti dal mare, dove la spiaggia è ricoperta di cristalli di ghiaccio ed è assente ogni traccia della specie umana. Forse ciò che vede non è un caso? Forse qualcuno sta cercando di comunicarle qualcosa? Una spiacevole sorpresa ne sarà la conferma e il primo passo che le consentirà di fare luce sul suo mistero, ma forse… era meglio non sapere.

Zaffiro, il richiamo dei Ventusmarin – Capitolo 19

Un dirupo. È esattamente come un dirupo che sta per sfaldarsi che mi sento. Se anche questa volta accadrà, mi ricomporrò di tanti frammenti irregolari, sempre più fragili, pregando che non arrivi mai il giorno in cui mi romperò di nuovo e non riuscirò più a reinventarmi. Provo a guardare la realtà con gli occhi di chi non ha alcun timore, pensando che è tutto al suo posto e che niente è irrecuperabile, ma la verità è che tutto questo non mi appartiene. Non mi è mai appartenuto. Lancio il piumone con l’idea di prendermela con il mondo intero. Dalla schiena cadono rivoli di sudore, emblema di uno stato fisico dormiente per nulla sereno. Come posso esserlo? Come posso recuperare una condizione in cui non sono mai stata? Ho sempre vissuto con l’ansia che prima o poi arrivasse. Una semplice visione oppure un vero e proprio spostamento. Ho imparato a riconoscere i sintomi di quando stesse per accadere, acquisendo dimestichezza con nausea, vertigini,
tachicardia e qualche volta anche gravi contorsioni di stomaco. La prima notte che mi sono ritrovata fuori casa dopo una visione, è stata in spiaggia, avevo sei anni. Il fluire dell’acqua sulla schiena mi dà modo di riflettere ancora, e ancora. Riflettere anni e anni senza trovare una risposta. Strofino il sapone contro la pelle intorpidita dal freddo. Quando temevano che fossi affogata dovevo avere otto anni al massimo. Ero sott’acqua da almeno cinque minuti, un’onda più forte e mi ritrovai a galla, non riuscendo a raggiungere di nuovo il fondale. Qualcuno pensò che, come tutti i bambini, mi vergognassi a parlare o che temessi di farlo, perché sul mio volto non c’era traccia di paura, ma la realtà è che avrei potuto trascorrere altri cinque minuti senza ossigeno. Oggi, a mente fresca, tutto mi è più chiaro. Tampono il viso con l’asciugamano e spalanco gli occhi. Mi siedo a bordo vasca, a bocca aperta, adesso mi torna ogni cosa! Non è la prima volta che vedo quell’uomo. È comparso in molte delle visioni che Dio solo sa quanto mi danno per aver definito incubi, e mi ha sempre spaventata. O mi minacciava di farmi torture varie, o mi toccava con l’ortica e poi mi
comparivano delle bolle rosse enormi, e anche lì non l’ho mai visto in faccia. Ha sempre vissuto nella penombra della mia vita, in attesa del momento giusto per chiedere ciò che voleva. Me. So che è lui perché ha la stessa voce rauca e priva di suono, la stessa cattiveria… Grazie a quel figlio di Satana, le mie visioni sono state il trampolino di lancio verso psichiatri e neurologi di alto livello.

Sin dal primo momento il mio pediatra si è tirato fuori, definendo il caso complesso, difficile da valutare con i soli strumenti della Pediatria. L’ho odiato esattamente come l’ortica, insieme all’uomo delle visioni, che gli psicologi avevano definito riflesso distorto di natura inconscia della figura paterna, generato dall’assenza della stessa. Infilo un maglioncino bordeaux e dei pantaloni marroni, che rispecchiano appieno il mio umore: una merda. Sorvolo di nuovo la colazione e mi avvio verso la stazione, affollata di ricordi dolorosi, preoccupazioni che ancora oggi mi affliggono. Penso ancora alle prime visite mediche, a mia madre che mi tratta come una disagiata, senza concedermi un attimo di intimità. Mi ha perfino messo il sostegno a scuola, e tutti hanno sempre riso sotto al naso
quando passavo tra i banchi con lo sguardo desolato e gli occhi bassi, pensando che avessi qualche forma di autismo. Le visioni che di tanto in tanto mi capitava di avere a lezione, considerati i loro sintomi, aggravarono le cose. Gli psichiatri li definirono movimenti nervosi involontari, ai quali vennero accompagnati i rispettivi ansiolitici. Non potevo nascondere il mio stato fisico a nessuno, né riuscivo ad apprezzare gli innumerevoli sforzi economici di mia madre che mi sono costati la vita sociale, i brividi di quell’adolescenza che chiunque merita di sperimentare. Cerco un fazzoletto nella borsa per asciugare le lacrime, ma il dolore di quei momenti non lo cancellerà mai nessuno.

Alexandra Romano


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Se invece vuoi leggere un altro estratto, clicca qui -> Zaffiro, il richiamo dei Ventusmarin – Capitolo 21.

E se avessi fatto quel sogno non a caso? Se qualcuno stesse cercando di comunicarmi qualcosa? Forse ciò che vedo a un riscontro reale?
Queste sono le domande che Ginevra si pone, sin da bambina, senza riuscirsi a dare una risposta, ogni volta che trasmigra verso un luogo atipico. Un continente dove è forte l’eco di voci provenienti dal mare, dove la spiaggia è ricoperta di cristalli di ghiaccio ed è assente ogni traccia della specie umana. Forse ciò che vede non è un caso? Forse qualcuno sta cercando di comunicarle qualcosa? Una spiacevole sorpresa ne sarà la conferma e il primo passo che le consentirà di fare luce sul suo mistero, ma forse… era meglio non sapere.

Philip Dick: la fantascienza come espressione di aspetti repressi dalla società umana

La capacità di immedesimarsi nell’altro, la comprensione dei sentimenti e i dolori che affliggono una persona a noi vicina. Le emozioni, quelle belle e quelle “brutte”, anche se penso che un giudizio di valore sulla capacità di provare brividi piacevoli o torsioni di stomaco che danno un senso alle nostre esperienze sia sbagliata. L’empatia, una sola parola, ma che racchiude in se miriadi di significati, esperienze e sensazioni, è il nostro più grande dono. E Dick lo aveva intuito alla perfezione già agli albori della sua carriera, tanto da dedicare ad essa interi libri, riflessioni e anche idee divaganti che, se guardiamo più a fondo, simboleggiano i confini dell’esistenza.
Philip Dick è uno degli scrittori più influenti del XX secolo, è stato capace di esprimere i sentimenti, le frustrazioni e i desideri delle generazioni di intera epoca. La beat generation, la cultura lisergica, gli bi-alfabetizzati (sia fonetici che televisivi), ma anche gli emarginati. I drogati, gli psicotici diventano protagonisti, seppur destinati ad una fine tragica, individui che lottano per appropriarsi della propria libertà. Infatti, Dick esplora l’utilizzo della droga con uno sguardo avulso dal filtro dell’apparenza scoprendo quanto l’abuso di stupefacenti corrisponda a una situazione umana precaria. L’uomo viene al mondo senza conoscere qual è il suo vero scopo, perché da un momento all’altro la sua vita può finire senza un’adeguata giustificazione, ed è totalmente inetto del suo percorso biologico. L’uso di stupefacenti e l’eccesso di sostanze psicotrope corrisponde al tentativo di appropriarsi a quella intelligenza complessiva che in natura gli è sottratta.

Cyborg, esistenze sintetiche e intelligenze sovrumane

I cyborg, esseri mutanti, metà organici e metà inorganici, rappresentano proprio ciò che c’è oltre quel confine. Quando l’uomo supera se stesso e inizia a produrre qualcosa che presenta la particolarità di superare alcuni dei suoi limiti. La capacità di calcolo, una volta esclusivo appannaggio dell’uomo, è oggi specifica dell’intelligenza artificiale. Basti pensare che ci sono operazioni che ormai deleghiamo ai nostri dispositivi, senza neanche compiere più lo sforzo di tentare, fallire e riprovare. L’uomo arriva creare degli esseri nei quali inocula una memoria artificiale, fatta di falsi ricordi e increduli affetti, che caratterizzano un po’ tutti gli esseri tecnologici. Gli androidi messi in scena da Philip Dick sono un altro simbolo della finitezza della nostra esistenza, programmati per adempiere a dei fini specifici. Nel momento in cui però sorgono le prime domande sulla propria esistenza, che non corrispondono ad una risposta automatica ad un input, ecco che diventano quanto più simili al colui che li ha creati. È un po’ ciò che accade in Blade Runner, tratto dal famosissimo romanzo di Dick: Do androids dream of The electric sheep. Nonostante le storie profondamente riflessive, struggenti inventate dall’autore, egli nutre ancora una speranza: l’amore. Per Philip Dick l’unica salvezza per l’uomo è condividere la propria sofferenza con quella altrui, immedesimarsi nell’altro e cooperare per il benessere reciproco.

I simulacri (1964) di Philip Dick

Ne I simulacri Dick immagina uno scenario, ad oggi non troppo lontano, di quello che potrebbe essere il futuro che ci attende. Un mondo che sopravvive sui frammenti di una realtà che non esiste più, che si confonde nella finzione, surrogato della plastica, unica vera materia destinata a permanere nel tempo. Un presidente degli Stati Uniti che non esiste. Una donna, sua moglie, molto più vecchia di ciò che appare e ben diversa da ciò che il pubblico è abituato a vedere. Infine, uno dei personaggi che più colpisce della trama, è il pianista psicocinetico Richard Kongrosian, che vive una sensazione sofferta di distacco con il proprio corpo, con la propria personalità. Per lui il destino non ha riservato uno scenario luminoso, e con un ultimo tragico evento la sua persona sarà totalmente stravolta.

In senso inverso (1967) di Philip Dick

Un altra opera, considerata tra i capolavori della fantascienza, è In senso inverso, pubblicata nel 1967, che propone un totale stravolgimento di prospettiva. La morte viene considerata un processo reversibile, dal quale si può tornare indietro, rinascendo, a differenza della nascita, priva di un vissuto alle spalle. Il primo “rinato”, Sebastian Hermes, diventa il capostipite di una ditta deputata alla riesumazione dei morti dalle loro tombe. Sigarette fumate a partire dalle cicche. L’atto del cibarsi non più fatto della nutrizione e dell’ingerimento, ma da profondi spasmi dell’intestino che portano a rimettere. Non ci si rade più, la peluria della pelle e i baffi vengono attaccati sulla pelle. Solo una mente stravagante come quella di Dick avrebbe potuto concepire un romanzo nel quale l’intero processo biologico viene stravolto, dando una voce al dolore della perdita per qualcuno.

I giocatori di Titano (1963) di Philip Dick

In questo romanzo invece, l’autore mette a fuoco quello che sarà il futuro abitato dalla tecnologia, e lo fa sempre in una chiave distopica. Le macchine intelligenti, quelle che noi tutti conosciamo e che oggi circolano liberamente nella nostra intimità, sorvegliano i protagonisti nella loro vita di tutti i giorni. I mezzi di comunicazione e le macchine, quali automobili e farmacie smart, hanno acquisito una propria esistenza al punto di ribellarsi con i propri utenti. Molti giocano a Bluff, un gioco di gruppo che accoppia in modo sempre diverso gli individui, e che si servono della telepatia per aggirare le mosse dell’altro. Questo giorno attrae anche i vug, esseri deformi e quasi spaventosi, dotati di una telepatia spiccata, che hanno invaso la Terra. I giocatori di Titano racconta il disorientamento degli anni Sessanta, e rappresenta anche un romanzo atemporale, in grado di anticipare le fattezze di un futuro dove l’uomo è sempre più sottomesso agli esseri da lui creati, in primis le tecnologie.

Alexandra Romano

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ZAFFIRO, il richiamo dei Ventusmarin (Alexandra Romano) – 2° estratto

Anche dietro a un’apparente e semplice routine può celarsi il più profondo dei misteri. Talvolta, gli stereotipi sono dei veli che sanno camuffarci a perfezione per stare al mondo, ma non bisogna tralasciare neanche il più minuscolo dei dettagli. Uno sguardo, una mera sensazione, e tutto può cambiare, perché la persona più limpida, in realtà, può essere la più ambigua. È un po’ quello che succede a Ginevra che, sin da bambina, si pone sempre le stesse domande, senza riuscire a rispondersi, ogni volta che trasmigra verso un luogo atipico. Un continente dove è forte l’eco di voci provenienti dal mare, dove la spiaggia è ricoperta di cristalli di ghiaccio ed è assente ogni traccia della specie umana. Forse ciò che vede non è un caso? Forse qualcuno sta cercando di comunicarle qualcosa? Una spiacevole sorpresa ne sarà la conferma e il primo passo che le consentirà di fare luce sul suo mistero, ma forse… era meglio non sapere.

Zaffiro, il richiamo dei Ventusmarin – Prologo

Nathan e Lilian sorridono commossi e percorrono i primi gradini di ghiaccio. La Torre reale, da sempre utilizzata solo per le incoronazioni, vanta di tre Troni diversi. Avvenuta l’incoronazione, in alto siede il nuovo Diamante, più in basso, al secondo, siede quello precedente. Al terzo Trono ci sono invece gli adepti di primo grado, la cui carica dura fino a quando i regnanti non decidono di rinnovarli.
«A breve venti compatrioti si imbarcheranno in un viaggio di sola andata. Non è un compito facile, anzi, non lo è per niente» un silenzio colmo di serietà e apprensione si fa spazio sulla scena. «Non posso escludere qualunque genere di ipotesi, quindi a tutte le vostre supposizioni la risposta è sì, tuttavia, riuscire in questa missione significherebbe raggiungere un grande traguardo. Nessuno ha ancora varcato il confine, ci aspetta di tutto lì fuori, ma se è vero che siamo nati per combattere, se è questa l’essenza della nostra vita, dobbiamo andare! Chi si sente pronto deve fare il grande salto, è ora il momento! La dea Iside ha appena ricevuto il nostro futuro re…»
«Sia lodata Iside! Lunga vita all’anima di Iside!»
«…il Pianeta è in pericolo e il principale responsabile è l’uomo, o meglio, lo diventerà. Grazie alla nostra suprema Madre, che ancora una volta ha voluto donarci la sua Sapienza, possiamo intervenire per cambiare le cose e, a questo punto, credo che la parola tocchi ai protagonisti.»
Nathan e Lilian salgono gli ultimi due gradini e raggiungono l’apice della Torre.
«Buongiorno a tutti» un inchino accompagna il discorso. «Ringraziamo le divinità per averci onorato di questa posizione, ne siamo immensamente grati, e per dimostrarlo manterremo sempre fede ai nostri doveri. Ringraziamo anche i sovrani per la fiducia nel cederci il loro posto, e a voi.»
«Non dovete ringraziare me ed Evaline, è la volontà divina che vi ha scelto. Il nostro compito è terminato, e da adesso saremo noi ad elogiarvi per la vostra protezione» Elvin si flette verso lo spazio tra lui ed Evaline e afferra lo scrigno contenente i due diamanti. Con un movimento noto ai soli sovrani, lo apre e sfiora i diamanti, il giusto per poterli porre sul capo dei futuri governanti. Nel mentre il popolo abbassa il capo.
«A nome di Iside, di Ermes, di me ed Evaline e di tutte le altre divinità, io vi dichiaro futuri sovrani del popolo dei Ventusmarin, e procreatori del Secondo Diamante del Mare. Da ora in poi, fino alla fine della vostra missione, avrete le redini di tutto lo Zaffiro.»
Nel cielo l’unione tra i due diamanti dà origine ad un’unica onda, che al ventesimo secondo sparisce tra le nuvole. Dopo la riverenza dei sovrani alla volontà degli dèi, la lode popolare accoglie il nuovo ordine.
«Dunque, è giunto il momento di annunciarvi la nostra consulta» esordisce Lilian. «Tra qualche secolo avverrà una grande rivoluzione. La chiameranno rivoluzione industriale, e sarà l’inizio che condurrà all’uso del petrolio, dell’acciaio, della plastica e di altri materiali artificiali che non conosciamo. Le risorse naturali verranno sfruttate fino a collassare, e… i rifiuti dell’uomo si riverseranno nella natura.»
«Quindi anche gli oceani saranno coinvolti?»
«Certo che lo saranno, gli oceani sono il cuore del pianeta, e purtroppo anche i ghiacciai.»
La parola sgomento è riduttiva per descrivere il misto di espressioni.
«I ghiacciai?»
Lilian emette un sospiro. «Non si tratta di cose smaltibili, quindi anche il solo inquinamento di un’area precisa si riverbera sull’intero ecosistema. Le sostanze rilasciate dal traffico dei trasporti via acqua aumenteranno, e dire che non intaccherà flora e fauna marine, significherebbe negare l’evidenza. L’uomo colonizzerà quasi tutto il Pianeta, e… e no… noi potremmo far parte delle sue prede, così come molte specie animali, che rischiano di essere catturate ed esibite per saziare alcune forme irrazionali di svago. Dobbiamo fermarlo con tutte le forze che abbiamo. Il Power Glice e l’Intuito sono la nostra arma più potente.»


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Se invece vuoi leggere un altro estratto, clicca qui -> Zaffiro, il richiamo dei Ventusmarin – Capitolo 21.

E se avessi fatto quel sogno non a caso? Se qualcuno stesse cercando di comunicarmi qualcosa? Forse ciò che vedo a un riscontro reale?
Queste sono le domande che Ginevra si pone, sin da bambina, senza riuscirsi a dare una risposta, ogni volta che trasmigra verso un luogo atipico. Un continente dove è forte l’eco di voci provenienti dal mare, dove la spiaggia è ricoperta di cristalli di ghiaccio ed è assente ogni traccia della specie umana. Forse ciò che vede non è un caso? Forse qualcuno sta cercando di comunicarle qualcosa? Una spiacevole sorpresa ne sarà la conferma e il primo passo che le consentirà di fare luce sul suo mistero, ma forse… era meglio non sapere.

ZAFFIRO, il richiamo dei Ventusmarin (Alexandra Romano) – 1° estratto

Anche dietro a un’apparente e semplice routine può celarsi il più profondo dei misteri. Talvolta, gli stereotipi sono dei veli che sanno camuffarci a perfezione per stare al mondo, ma non bisogna tralasciare neanche il più minuscolo dei dettagli. Uno sguardo, una mera sensazione, e tutto può cambiare, perché la persona più limpida, in realtà, può essere la più ambigua. È un po’ quello che succede a Ginevra che, sin da bambina, si pone sempre le stesse domande, senza riuscire a rispondersi, ogni volta che trasmigra verso un luogo atipico. Un continente dove è forte l’eco di voci provenienti dal mare, dove la spiaggia è ricoperta di cristalli di ghiaccio ed è assente ogni traccia della specie umana. Forse ciò che vede non è un caso? Forse qualcuno sta cercando di comunicarle qualcosa? Una spiacevole sorpresa ne sarà la conferma e il primo passo che le consentirà di fare luce sul suo mistero, ma forse… era meglio non sapere.

Zaffiro, il richiamo dei Ventusmarin – Capitolo 21

La guardia stacca un terzo di biglietto e finalmente entro in pieno clima concertistico. Il merchandising di questo cantante è molto psichedelico. A quanto pare ama le fiamme, cosparge ogni cosa di blu e gli piace il rock, visto il richiamo allo stile di alcune band nuvoloso illuminato da scie di un color blu elettrico. Per un attimo le vedo muoversi. Strofino gli occhi e torno a guardarle. Si muovono ancora! Ti prego, fa che non sia il preavviso di una visione. Per favore. Occupo ogni minimo centimetro di spazio tra le persone. Devo raggiungere il bagno il prima degli anni ottanta. Il suo nuovo album si chiama Luci nel buio, la copertina dipinge la scena di un cielo possibile. Mi scuso con qualcuno per aver ascoltato uno stralcio di conversazione, e prego di non ricevere qualche ceffone. Mi ricompare l’episodio delle scie che ho visto a Marechiaro, con Riccardo, seguito da un viaggio sull’acqua scura della notte. Non riesco a capire cos’è che mi trasporta con tanta velocità. Eppure, sento di muovermi allo stesso ritmo del vento, che soffia sulle onde. Il mare si agita al passaggio di una stella cadente, arricciando la sua superficie, che crea una schiuma bianco latte. L’unico bagliore di luce. Di colpo rivedo la fila del bagno, e la prima porta aperta. Mi ci infilo senza pensarci, lasciandomi alle spalle le ramanzine di una donna sui cinquanta. Sono stata scorretta, lo so, ma se mi sono fregata la tavolozza è per un buon motivo. Ne beneficeremo tutti. Inserisco il chiavistello nel gancio e mi siedo sul water, con i piedi tesi contro la porta, che termina qualche metro più su delle caviglie. Accidenti, sarà diff… oddio, eccola che arriva, la seconda visione. Inspiro a fondo e mi asciugo la fronte con la carta igienica. Non doveva succedere. Non stasera. L’emicrania sta già imprecando nella testa. Un conato di vomito mi piega in due. Mi alzo e sollevo subito la tavoletta. Non posso più vivere così. Il brusio di voci inizia a scemare, diventando sempre più debole, e l’improvvisa comparsa di una torre di ghiaccio cancella ogni sintomo. Sono su una specie di lago gelido, anche se oserei definirlo più una piazza, visto il contorno di varie costruzioni vetrate. Accanto a me c’è una fontana, con l’acqua ferma al suo flusso quando le temperature erano alte.
Dove sono?
La torre è composta da tre piani, ognuno decorato ai bordi con della polvere argentata. La roccia di cui è fatta ha un colore atipico, tendente al blu, così come il ghiaccio che pende dai piani. Muovo altri passi avanti e mi si annebbia la vista. Prima vedo tutto offuscato, poi nero, insieme al suono crescente del trambusto del bagno. In un baleno mi ritrovo a terra accanto al water.
Cinque colpi furiosi alla porta bastano a issarmi. Tolgo il chiavistello e la spalanco, senza neanche comprendere cosa sia appena successo.

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E se avessi fatto quel sogno non a caso? Se qualcuno stesse cercando di comunicarmi qualcosa? Forse ciò che vedo a un riscontro reale?
Queste sono le domande che Ginevra si pone, sin da bambina, senza riuscirsi a dare una risposta, ogni volta che trasmigra verso un luogo atipico. Un continente dove è forte l’eco di voci provenienti dal mare, dove la spiaggia è ricoperta di cristalli di ghiaccio ed è assente ogni traccia della specie umana. Forse ciò che vede non è un caso? Forse qualcuno sta cercando di comunicarle qualcosa? Una spiacevole sorpresa ne sarà la conferma e il primo passo che le consentirà di fare luce sul suo mistero, ma forse… era meglio non sapere.

Le leggende della tigre (Nicolai Lilin) – RECENSIONE

Le leggende della tigre di Nicolai Lilin è l’intreccio perfetto tra fantasy e mitologia, mistero e scoperta di luoghi atipici, con l’aggiunta di racconti avvincenti che si riallacciano alle storiche tradizioni dei popoli “ghiacciati”. Aneddoti arricchiti dal calore del camino, all’interno di una delle classiche abitazioni siberiane, le zaimki, mentre fuori impreca vyuga: una delle tempeste più violente della Siberia. Essa comincia con un vortice di aria ghiacciata, che solleva mulinelli carichi di neve a fiocchi grossi, e pare che i cacciatori autoctoni sappiano predirne l’arrivo:

“Il segnale più chiaro di un’imminente tempesta lo sanno i sottili ramoscelli di pino, che di solito si trovano in abbondanza nella parte bassa dell’albero. I cacciatori li guardano e capiscono se devono tornare alle loro case in tempo per non essere sorpresi dalla bufera. Durante una buona giornata di sole questi ramoscelli sono dritti, cercano di estendersi il più possibile per ricevere almeno un po’ di luce. Appena l’albero avverte nell’aria i primi anche più insignificanti cambiamenti, i ramoscelli cominciano a piegarsi leggermente verso l’alto, e con l’avvicinarsi della tempesta si ritirano verso il tronco, stringendosi contro di lui. Se insieme a questi segni senti cantare il ciuffolotto, aspettati una tempesta forte e lunga.”

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Le storie che più mi hanno colpita de “Le leggende della tigre”…

In questo romanzo ho ritrovato le radici dell’umanità, un piccolo riferimento, anche se invisibile, alle tribù. Il tepore del fuoco, la sua capacità di attrarre più menti attorno a sé e creare la giusta atmosfera per le narrazioni, rinvia a un altro elemento centrale in questa storia, l’oralità: predecessore di tutte le forme di comunicazione. Mentre l’anziano cacciatore raccontava dell’amore tormentato di Aiabala, o del bambino di sale, era come se accanto ai protagonisti ci fossi stata anche io. Uno dei punti forti di Lilin è proprio nella descrizione. L’autore riesce a far immedesimare il lettore al punto di fargli avvertire i brividi della neve, lo stupore dei due veterinari dinanzi a quelle storie…

Aibala e Haram…

Il racconto della Principessa tatuata consente di carpire parte della sofferenza che le antiche convenzioni hanno determinato negli esseri umani, definendo quale fosse l’amore ideale. L’impossibilità di potersi congiungere con il proprio amato, che spinge Aibala a farsi uccidere, senza poterlo comunque vivere, spiega quanto l’amore fosse il risultato di regole o interessi sottesi alle grandi famiglie. La storia del mercante mi ha fornito invece lo spunto per riflettere sul contesto globale attuale, sempre più pervaso da interessi economici e politici contrastanti. Il mercante, soprannominato Haram, che nella lingua degli Yakuti significa “avaro”, fa comprendere quanto l’umanità abbia talvolta perseguito l’infelicità o realizzato una mera utopia. L’unica cosa che faceva fibrillare Haram, tra l’altro anche il suo unico scopo nella sua vita, era l’idea di possedere tutto l’oro dell’universo. Quando si imbatte in una foresta con i suoi carri muniti di schiavi, conosce la figlia del lago, che gli offre la possibilità di diventare eterno e possedere l’intero mondo. Egli non esita ad accettare l’offerta e da quel giorno insegue il suo irraggiungibile fine.

Il gesto del mercante è, secondo me, emblematico della natura umana. Per questo, può essere una delle chiavi di lettura per comprendere le ripercussioni attuali che sta avendo sul pianeta. L’uomo si è fatto persuadere dalla concezione dell’essere dominatore, al punto da farsi divorare all’interno. Ha colonizzato terre, violando le libertà e i diritti di chi le abitava. Ha sfruttato all’estremo le risorse che natura possiede, senza badare neppure alle conseguenze che ogni sua azione può determinare nella natura. E “Le leggende della tigre” potrebbe essere una valida guida per farci render conto di quanto, l’uomo, abbia rovinato il pianeta.

Verso la verità: un amore indissolubile oltre ogni limite

Abbassai lo sguardo. «Ma quando ci lascerà in pace?…».

«Amore mio, non disperare. Troveremo una soluzione», mi accarezzò le guance, e mi diede un bacio sulla fronte.

«Oh, amore mio sono le dieci e trenta, domani abbiamo scuola, cioè, ho scuola… dovrei… andare».

«Va’ pure – sorrisi sperando di rassicurarlo – Io sto meglio».

«Amore, non mi fido a lasciarti qui, tutta sola».

«Ci sono stata due notti, non posso starci una terza?»

Mi fissò per un attimo. Mi baciò, e se ne andò. Provai a dormire e, data la stanchezza, crollai dopo meno di due minuti. Iniziai a fare un sogno. Ero in un immenso campo di girasoli, esistevano solo i girasoli, il cielo, la terra ed io. Improvvisamente sentii degli strani rumori nel sogno, come tuoni, mentre il sogno stava dissolvendosi sempre di più. Mi svegliai, poiché anche nella realtà sentii dei rumori. Non riuscivo a capirli inizialmente, dopo intuii che non erano esattamente rumori: era il suono di passi per il corridoio. L’ospedale era completamente deserto e buio, avvertii che non era qualcosa di pericoloso. Un istante dopo… Mark.


«Che ci fai qui?», gli domandai colta alla sprovvista.

«Ti amo!», si precipitò accanto a me.

«Anche io, ma cosa succede? Perché non sei ancora a casa?».

«Non potevo».

«Non potevi cosa?».

«Lasciarti di nuovo sola».

«Ma starò bene vedrai, è anche tardi».

«Non mi interessa, io non me ne vado», disse con fermezza.

Ti prego, portami via: portami a vivere

Ti prego portami via, questo mondo fa sempre più paura e i bambini smettono di sorridere. I bambini soffrono per la mancanza di amore, patiscono la fame con il loro corpo sempre più esile. 

Ti prego portami via, dove esiste un mondo fatto di umanità, dove gli attentati non sono all’atto del giorno e non c’è bisogno di accendere il telegiornale. Portami dove esiste solo comprensione e il termine “violenza” non è mai stato pronunciato. Dove a una pistola viene sostituita un cuore di peluche, delicato come l’empatia.

Ti prego portami via, in un mondo dove si vanno a comprare i fiori non per portarli su una tomba ma per significare un gesto d’affetto. Portami dove regalare una rosa nasce da un desiderio solamente spontaneo, e mai in seguito ad un litigio o una malattia. Dove non bisogna essere iscritti ai social per sentirsi meno soli e i rapporti sono fisici e non virtuali, simulati.

Ti prego portami via, dove il riscaldamento globale è solo un fattore naturale e la gente non scappa per vivere meglio in un posto che non le appartiene. Dove gli alberi non si abbattono e l’aumento del livello del mare è solo un fattore positivo per il ripristino di aree scomparse, siccitose. Dove i fiori non appassiscono e la pioggia non corrode la terra. Un mondo fatto di equilibrio tra uomo e natura, in cui chiunque può fare ciò che vuole a discapito di niente e nessuno.

Ti prego portami via, dove il bene non viene barattato con i soldi e l’amore ha un peso. Dove le donne vengono rispettate e hanno uguali diritti, perché poco le distingue dagli uomini. Dove gli animali non vengono trattati come futili oggetti privi di sentimento, perché anche un corpo fatto di tanto pelo ha un’anima. La sola, a non essere mai contaminata. In una società fatta di silenzi e incomprensioni, lo sguardo di un cane può comunicare molto più di una frase di conforto.
Portami in una società dove conta ciò che si è dentro e non come si appare, o ciò che si vuole far credere di essere. Dove si da un peso ai sentimenti.

Ti prego portami via, dove chiunque è libero di vivere la vita che vuole, inseguire i propri sogni senza condizionamenti. In un posto dove fare della propria passione il proprio lavoro non è quasi un’aberrazione, e lo si può fare senza dover patire anni di sofferenze.
Prendimi per mano e portami via, portami a vivere.

Alexandra Romano